Siamo finalmente a Betlemme e, mentre è sul fuoco la nostra prima cena in ostello, posati gli zaini pieni di materiale per l’arrampicata, ci siamo fermati per riflettere su queste nostre prime frenetiche ore in Palestina.
Alcuni di noi hanno già assaggiato la caratteristica ospitalità israeliana rimanendo bloccati otto ore ai controlli in uscita dall’aeroporto di Tel Aviv per indagare quale fosse la motivazione del loro viaggio.
Appena arrivati a Betlemme siamo stati accolti nella sede di Badil, associazione da anni attiva nella resistenza palestinese che pone al centro della propria lettura politica il problema umanitario e politico dei rifugiati palestinesi.
I volontari di Badil ci hanno spiegato che, nonostante nel senso comune, i rifugiati palestinesi compaiano solo dopo la nakba (catastrofe) del 1948, alcuni di questi furono sfollati già nel 1917 a causa dei primi insediamenti di coloni ebrei permessi e sostenuti dall’impero inglese, coalizzato col sionismo per il ritorno nella “terra promessa”.
In oltre settant’anni di occupazione, Israele ha seguito in maniera sistematica ma non totale l’obiettivo strategico di “massimo territorio -sotto il suo controllo- con il minor numero di palestinesi”.
Per fare questo, i sionisti, oltre alle espulsioni fisiche di massa del 48 e del 67, hanno ideato un sistema complesso di esclusione progressiva dei palestinesi dal loro paese e di pressione psicologica costante.
I palestinesi, sopratutto quelli che vivono nei campi profughi, sono perennemente sottoposti alla legge marziale imposta dalle forze armate israeliane. Chiunque può essere ucciso in ogni momento, solo in virtù di una sospetta pericolosità per l’incolumità di un israeliano.
I terreni, le case, i beni abbandonati dai palestinesi anche solo temporaneamente, possono essere legalmente confiscati dai coloni israeliani rubandone la proprietà. Per questo motivo i palestinesi sono obbligati a dimostrare mensilmente di vivere effettivamente nelle loro case e nella loro città.
Un altro caso è il regime dei permessi, un sistema di burocratizzazione della quotidianità che richiede ad ogni palestinese un particolare permesso per ogni singolo aspetto della propria vita come spostarsi dal proprio luogo di residenza, anche solo per lavoro, aprire attività commerciali, costruire la propria abitazione o addirittura per avere la cittadinanza dei propri figli.
L’ultimo strumento di espansione sionista fa leva sugli insediamenti illegali con il sostengo del governo di Tel Aviv. I coloni, a fronte di sgravi fiscali, indennizzi e sussidi, si offrono volontariamente per andare a vivere nei territori occupati con le proprie famiglie, andando così ad abitare zone sia rurali che urbane, sottratte ai precedenti abitanti arabi. I coloni rappresentano l’avamposto dell’occupazione, scortati e coccolati dall’esercito israeliano che li difende come una milizia privata. Nei pressi delle colonie è facile incontrare abitanti armati, intenti in provocazioni e sopraffazioni di vario tipo, i quali rivendicano il controllo di nuove aree o minacciano la tranquillità delle famiglie palestinesi nelle proprie case.
Al momento il 66% dei palestinesi vive al di fuori delle zone d’origine: 8 milioni di persone per una popolazione complessiva di 12 milioni. L’associazione Badil si impegna nel porre il diritto al ritorno e il problema dei rifugiati come fulcro della propria attività politica lottando affinché questi due argomenti tornino al centro del dibattito politico nazionale e internazionale. Nella loro visione il diritto al ritorno è il primo passo per immaginare una soluzione al conflitto e ce lo raccontano gli innumerevoli graffiti che rappresentano chiavi e serrature sui muri delle case e degli edifici fra West Bank e Striscia di Gaza.
L’altra faccia della medaglia è la condizione di occupazione coloniale, un regime di apartheid evidente in un momento di grandi stravolgimenti interni. La disgregazione delle storiche organizzazioni della resistenza palestinese, il complicarsi dello scenario internazionale, la gestione dell’autorità palestinese che ha spinto per l’apertura al libero mercato, portano così alla frammentazione della struttura sociale. Per i palestinesi la fine dell’occupazione rimane comunque il principale problema da affrontare.
Salutati i volontari di Badil facciamo rotta verso il centro culturale di Laylac, la nostra base operativa nel campo profughi di Dehisheh. Come sempre l’accoglienza per noi internazionali è calorosa, sia da parte dei volontari del centro che della gente incontrata nelle prime ore di passeggiate per i vicoli del campo.
Durante quest’anno il centro ha proseguito con le attività volte all’attivazione dei giovani del campo e alla coesione sociale. Con grande orgoglio ci presentano i tre più recenti successi della loro attività: il riconoscimento di Laylac da parte dell’Università di Betlemme, come luogo di tirocinio per gli studenti di scienze sociali, la concessione di una parte del cortile della vicina scuola elementare per realizzare una rampa da skate e la donazione di un furgoncino per gli spostamenti e le uscite didattiche.
Posati gli zaini, ci accompagnano attraverso le vie labirintiche e brulicanti di vita del campo profughi. Qui ci mostrano alcuni dei luoghi più significativi della resistenza, partendo dal cancello ormai distrutto del vecchio check point, ricordo vittorioso della prima intifada, per proseguire tra immagini di martiri e graffiti, utilizzati in passato come giornali murali. Tra i tanti disegni ci sono vignette di Handela, visi e ritratti dei martiri del campo ma anche scritte in ebraico, fatte dalle truppe israeliane durante le incursioni per cercare di orientarsi nelle strette e labirintiche vie.
Arriviamo poi alla casa di un martire dove veniamo accolti dalla madre e dal fratello. Ci raccontano la storia della loro famiglia che, come tante altre, ha vissuto in prima persona la fatica della resistenza all’occupazione. Sul termine resistenza i nostri ospiti ci tengono a chiarire che non si tratta solo di un conflitto fra due forze militari o politiche ma resistere ad un’invasione coloniale, così come sono altrettanto chiari nello specificare che per i palestinesi la pace non è giustizia: una pace che legittima l’oppressione e il furto dei territori palestinesi non è accettabile, considerata la tragedia sociale a cui è sottoposto questo popolo da più di 70 anni.
É solo il primo giorno e già ci siamo immersi nella realtà quotidiana palestinese. Domani ci divideremo in due gruppi: uno continuerà a conoscere le realtà locali e la storia della resistenza e l’altro si dirigerà verso le falesie da chiodare per un primo sopralluogo, sperando che i coloni recentemente insediati nelle stesse valli non ce lo impediscano.
p.s: Ricorrevano ieri i dieci anni dell’ultimo attacco di Israele a Gaza (nel tweetstorm #Gaza10) e il quarantesimo venerdì della Grande Marcia del ritrorno.