Climb free in Yabrud

La giornata è cominciata come mai avremmo voluto.
Ci siamo svegliati con il suono degli spari e le urla di protesta. Dalla finestra del centro Laylac che dà su Hebron street abbiamo potuto seguire lo scontro e purtroppo essere testimoni di avvenimenti devastanti quanto quotidiani nella Palestina sotto occupazione. Si sono svolti scontri tra soldati, entrati nel campo all’alba per compiere degli arresti, e i ragazzi palestinesi che tentavano di cacciarli. L’esercito spara per aprirsi un varco: un ragazzino cade a terra inerme, scopriamo più tardi che ha 12 anni; viene soccorso dai suoi compagni e caricato sul primo taxi. Altri 11 subiscono la stessa sorte.

Come se non fosse successo nulla, le macchine cominciano a passare di nuovo, i venditori aprono i loro negozi e la vita ricomincia davanti a questa assurdità. E anche noi come loro carichiamo gli zaini sulle spalle e saliamo sul bus che ci porterà nei dintorni di Ramallah a scalare. Con noi un gruppo di ragazzi del campo e volontari del centro, che tra sorrisi e scherzi monitorano in continuazione il cellulare per avere notizie sugli esiti dello scontro e sulle sorti dei loro amici.

Continua a leggere

Strenght of a woman

La strada che conduce da Betlemme a Jenin conterebbe al massimo 250 km, più o meno la stessa distanza che intercorre tra Milano e Modena. Nonostante questa vicinanza il tragitto dura più di 3 ore, questo perchè ogni palestinese che vive a Betlemme è costretto ad allungare il percorso per evitare quanti più check point possibili, ma anche perchè alcune strade sono ad esclusivo utilizzo degli israeliani. Siamo comunque costretti ad attraversare 3 posti di controllo: qui la situazione varia molto in base all’umore dei soldati di guardia e in base alle pretese necessità di sicurezza delle colonie vicine.

Continua a leggere

Jordan Valley Solidarity (forever).

La parte orientale della Palestina è una grande distesa desertica e al tempo stesso uno dei bacini idrici più importanti del Vicino Oriente. Qui si trova Gerico, una delle più antiche città del mondo, oggi tra le città più costose della West Bank, nel sogno di un impossibile turismo in queste terre in guerra permanente.

Gerico si trova nel cuore della Valle del Giordano, terra di popolazioni nomadi oggi costrette alla stanzialità. La vita di queste comunità e degli abitanti palestinesi è segnata da una lotta costante contro i progetti coloniali di Israele su terra e acque. La Valle del Giordano rappresenta il 30% della Cisgiordania; fino alla guerra del ’67 ci vivevano 320mila persone, oggi ridotte a 56mila. Lo svuotamento dell’area è andato in parallelo alla costruzione delle colonie (oggi si contano circa 10mila settlers) e all’occupazione militare.

Continua a leggere

Hebron.

Hebron, al-Khalil in arabo.E’ forse la città più dura dove si possa osservare l’apartheid. Un posto diverso da qualsiasi altro posto in Cisogiordania: se infatti nel resto della West Bank le colonie israeliane sono a ridosso di villaggi e campi, a Hebron queste sono state invece inserite di forza all’interno della città vecchia, sottraendo edifici e case agli abitanti palestinesi.

Ci sono due momenti salienti nella storia della città: il primo risale all’aprile del ’68, quando il rabbino Moshe Levinger e un suo gruppo di studenti chiese all’esercito di poter trascorrere la pasqua nei luoghi santi per gli ebrei nella città vecchia. Si insediarono in una casa e da allora non sono mai più andati via. Il secondo è il 25 febbraio 1994, giorno del massacro di Hebron, quando Baruch Goldstein, ex medico militare, entra nella moschea di Ibrahim (Abramo per gli ebrei) e compie una strage durante la preghiera, prima di essere poi linciato dai sopravvissuti. Da allora, dopo gli accordi del ’97, la città è divisa in due zone: H1, sotto controllo dell’Autorità nazionale palestinese, e H2 (circa il 20% della città), sotto controllo dell’esercito israeliano.

Continua a leggere

‘Sana saaida’

A pochi chilometri da Betlemme esiste una valle dove pareti di calcare rossastro fanno da contorno a coltivazioni di ulivi. Qui il nostro gruppo ha fatto la sua prima esplorazione scalatoria, cercando possibili linee di salita. Siamo in area C, sotto totale controllo israeliano, dove una colonia sovrasta la valle: è una delle più ricche e abitata solo da ex militari. Il muro e la caserma militare la separano per pochi metri dal piccolo villaggio palestinese che ancora resiste.

In questo viaggio ci accompagna un numeroso gruppo di ragazzi del centro culturale Laylac. Alcuni muovono oggi i primi passi sulla roccia, altri invece dimostrano una certa manualità con corde e nodi, grazie anche agli amici francesi che prima di noi hanno sviluppato il progetto ‘climbing the walls’.

In questo luogo nessuna parete è stata ancora chiodata, ogni linea è raggiungibile dall’alto e tutte le soste vengono attrezzate su spuntoni e clessidre. La falesia è composta da due lunghi muri contrapposti di una decina di metri d’altezza tra i quali si estendono terrazzamenti di ulivi. La roccia è calcarea molto lavorata e le pareti sono caratterizzate da forti strapiombi intervallati da pilastrini verticali sui quali abbiamo concentrato la nostra scalata. Nonostante il modesto sviluppo verticale, l’estensione, la bellezza della roccia e del paesaggio la rendono interessante.

Continua a leggere

Sulla strada che porta verso il campo di Aida si incontrano i cimiteri dei martiri della resistenza palestinese: i combattenti caduti per mano dell’esercito israeliano. “I martiri sono martiri: non ha importanza il loro partito o fazione di appartenenza”. Per le comunità sono luoghi importanti, che rinsaldano una identità continuamente minacciata e dare un senso alla lotta che generazione dopo generazione i palestinesi portano avanti.

Quando si è ospiti di una famiglia di martiri e prigionieri politici questo aspetto risalta fin da subito: i volti dei familiari in carcere o caduti campeggiano nelle case, così come nelle strade dei quartieri. Dalle parole delle madri e dei padri sembra quasi di conoscerli. La sofferenza c’è e non la nascondono, ma è vissuta in modo profondamente collettivo. “La resistenza non è una questione individuale, ma è sempre di popolo”, ci racconta una famiglia che ci apre le porte di casa, offrendoci tchai e caffè in mezzo al fumo di sigarette. “Per tutti noi rimanere e farlo combattendo è una scelta. La nostra è una famiglia che ha sempre resistito: da me, fino a mio padre e i miei figli e figlie”, dice un vecchio combattente nel campo di Deisha.

Continua a leggere