Climbing free in Battir

Quest’anno abbiamo dedicato due giornate all’arrampicata, avremmo voluto far di più ma il meteo si è messo contro. Il 31/12 ed il 2/1 abbiamo passato la giornata interamente nelle falesie Battir, uno dei luoghi di natura incontaminata vicino Betlemme. Quella del villaggio e della valle di Battir è una delle pochissime storie in cui l’intervento di organismi internazionali è stato favorevole alla popolazione locale. Almeno in parte. Almeno fin’ora. Nel 2014, infatti, l’ UNESCO ha dichiarato questo villaggio agricolo patrimonio dell’umanità grazie al suo sistema di terrazzamenti risalenti a più di 2500 anni fa (https://nena-news.it/palestinabattir-ha-vinto/). Tale decisione è stata presa durante una sessione d’emergenza con l’obiettivo di bloccare la costruzione del muro “di sicurezza” israeliano che avrebbe diviso in due il villaggio (di cui comunque un terzo si trova già nel territorio annesso unilateralmente da Israele, anche in questo caso ben oltre la linea verde del 1967) e distrutto il suo antico sistema di irrigazione.

La valle è quindi, per ora, salva dal muro ma…non dalla costruzione delle colonie. Mente scaliamo immersi nel verde, tra gli ulivi e i falchi che volano, in uno dei luoghi con l’aria meno inquinata nei dintorni di Betlemme, alle nostre spalle svetta la colonia di Har Ghilo, gemella di quella di Ghilo (una delle colonie dove non possono risiedere ebrei africani). Sono anni che i coloni tentano di allargarsi alle spese del paesino di Battir, che però vanta una resistenza che risale al 1948. Il vicino paese di Al-Walajeh ha già subito lo sradicamento di centinai di ulivi da parte dei sionisti: questo è l’ennesimo crimine che i coloni commettono verso i palestinesi, visto che la coltivazioni degli ulivi è una delle attività economiche più diffuse nel West Bank.

Per fortuna, l’arrampicata e la convivialità nella natura ci permettono di dimenticare, per qualche ora, il contesto in cui ci troviamo. Più di 40 bambin* e ragazz*, provenienti dai campi profughi di Deisha e Aida, ci tengon impegnati senza respiro per tutte e due le giornate di arrampicata.

Non vedono l’ora di scalare, di salire su quelle rocce grazie alle vie che abbiamo chiodato lo scorso anno. C’è chi fa pochi metri e poi chiede subito di tornare giù, ed è inutile insistere “yalla yalla!”. C’è chi invece scala meglio di noi (beh, non ci vuole tanto), e non si fa in tempo a legarlo che già è arrivat* in sosta. Altri preferiscono invece cantare e suonare le chitarre e gli altri strumenti che realizziamo insieme a loro: lattine buttate per terra si trasformano in maracas, piatti di plastica in tamburelli, vecchi cestini in tamburi e percussioni. Altri ancora si dedicano ai disegni e alla pittura.

In breve l’atmosfera si fa allegra e molto chiassosa (qualcuno rimpiange il silenzio delle falesie nostrane!), fino al pranzo a base di falafel e hummus gustato in loco. Al pomeriggio, si ripresenta la stessa scena.
Con alcuni di loro decidiamo di tornare ad esplorare l’ultimo settore chiodato l’anno scorso, quello coi tiri più duri e…ci commuoviamo guardando M. e A. che arrivano fino alla sosta senza demordere, nonostante le cadute e la stanchezza.

La scena si ripete uguale nei due giorni dedicati all’arrampicata, se non che il 2/1 dedichiamo qualche ora ad un breve corso di sicura: alcuni nostri compagni e compagne (istruttori in palestre del nord italia) spiegano come fare l’otto, come far sicura, come far manovra ai ragazzi ed alle ragazze più attente ed esperte. La nostra idea è, infatti, quella di renderli il più possibile indipendenti.

E’ essenziale che quelle falesie diventino un luogo frequentato: non solo un presidio permanente contro l’avanzata dei coloni, ma anche un momento di svago e di condivisione, dove le differenze di età e sesso vengono meno per godersi tutt* la natura ed imparare a rispettarla.

Nel tardo pomeriggio, il sole inizia a calare: è il momento di tornare nei rispettivi campi profughi, un po’ più leggeri e soddisfatti.

A’ sarà dura!

Arrampicare a Battir

Lunedì 11 marzo ci si sveglia presto, zaino in spalla e si parte alla volta di Bet Jala: da qui si intraprende il sentiero per raggiungere il villaggio di Battir, lungo il quale è possibile incontrare alcune delle vie di arrampicata aperte lo scorso dicembre durante il viaggio in Palestina del gruppo West Climbing Bank.

La mattinata scorre tranquilla, grazie anche al clima primaverile e il sole tiepido. Il gruppo come sempre meticcio: palestinesi, italiani e francesi. Per alcuni è tutto una scoperta, per altri una riconferma di esperienze e di emozioni, per altri ancora casa.

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Battir

 

Questo è Battir, una zona limitrofa a Betlemme in cui la natura è incontaminata, luogo in cui molti palestinesi della zona si recano per fare passeggiate. E’ qui che il nostro progetto come West Climbing Bank prevede la continuazione del lavoro: chiodare le piccole falesie che circondano gli ulivi.

Per la precisione ci troviamo in area C, che secondo la partizione decisa nell’accordo di Oslo del 1993, è considerata una zona sotto controllo dell’ amministrazione israeliana, e di conseguenza vige il divieto per i palestinesi che possiedono legalmente quelle terre, di costruire. Un’altra cosa che non sarebbe permessa, sempre secondo questo famoso accordo,  è la costruzione delle colonie in queste aree da parte del governo Israeliano. Come ben sappiamo però la West Bank è ampiamente costellata da insediamenti, dove coloni israeliani risiedono sotto la stretta sicurezza dell’ esercito e ai quali, per la legge israeliana, è concesso possedere un’arma da fuoco per la propria tutela già in adolescenza.

Ieri mattina ci siamo recati a Battir per continuare alcuni step del nostro progetto e parlare con il sindaco di questo paesino per avere il permesso di piantare alcuni cartelli segnaletici per le “climbing routes” che nelle prossime settimane verranno chiodate da alcuni esperti scalatori del gruppo, e coinvolgerli nella partecipazione al progetto, attraverso un’azione di sistemazione e bonifica del luogo. Purtroppo però al nostro arrivo siamo stati accolti dalla spiacevole notizia che, con il sorgere del sole, alcuni coloni avevano fatto irruzione nella zona, dando il via a dei veri e propri lavori edili, attraverso l’ausilio di tre scavatrici.

Gli abitanti del luogo sono subito accorsi per reclamare le loro terre e denunciare l’azione illegale da parte dei coloni. Erano presenti anche ufficiali della polizia e dell’esercito israeliano, che cercavano di sedare l’ardore delle persone frustrate per l’azione, segnando su taccuini i nomi dei proprietari di quelle terre. Nei prossimi giorni ci recheremo nuovamente sul posto per capire come si evolve la vicenda.

Ma capiamo ancora più chiaramente quanto sia importante non lasciare indietro nemmeno un centimetro di terra alla razzia israeliana. In questo specifico caso “chiodare” più vie possibili significa fare in modo che diventino vette di resistenza politica attraverso l’azione sportiva. Ci rendiamo conto sempre di più del valore delle azioni che metteremo in atto attraverso questo progetto nelle prossime settimane e di quanto sia importante raccontare queste storie.

Essere solidali con il popolo palestinese significa sapere da che parte stare, e trasformare pensiero in azione pratica, come la condivisione e costruzione di progetti che diano una reale tangibilità di azione ai palestinesi nel rispetto della loro indipendenza.

Noi di West Climbing Bank abbiamo deciso da che parte stare, e torneremo a Battir nelle prossime settimane per scalare insieme ai ragazzi palestinesi “le vie verso il cielo e la libertà” e proteggere la terra palestinese dal colonialismo e dall’occupazione israeliana.

Per visionare i video consultare la nostra pagina facebook: West Climbing Bank

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Normale routine”

La “normale routine” in Palestina prevede che la notte, due volte a  settimana, i soldati dell’esercito israeliano entrino nel campo profughi di Deishesh; di solito il motivo è  arrestare qualcuno. Nello specifico sono sempre ragazzi, di età compresa fra i 14 e i 25 anni, perché sono di fatto il futuro e la speranza di questo Paese. In loro è viva la volontà di cambiare la situazione, tramite attività politiche o sociali, e per questo sono ritenuti “pericolosi” dal governo israeliano.

A volte però capita che i soldati arrivino ma poi non riescano a portare a termine il loro compito, come qualche notte fa, quando il ragazzo palestinese da loro scelto (Israele ha una legge che permette l’arresto e la detenzione in carcere senza prove né tanto meno conclusione di indagini, quindi senza processo, che si chiama appunto “detenzione amministrativa”) riesca a scappare, grazie anche all’intervento della sua famiglia.

Altre volte invece, capita che i ragazzi per lavoro, si trovino sulle colline di Betlemme, per imparare ad usare la videocamera per fare film, e per questo motivo si ritrovino accerchiati dai soldati, e bloccati per 4 ore. Nello specifico alcuni di loro sono dei volontari dell’Associazione Laylac, ragazzi che si occupano di promuovere attività per la loro comunità. Non avere loro notizie e saperli bloccati, ha messo in pausa per un pò anche le attività dell’associazione, dove la preoccupazione era tangibile.

L’esercito ha inasprito i controlli a causa di un attacco fisico su un colono da parte di un ragazzo palestinese , arrestato poi la sera stessa nel quartiere Beit Jala, a Betlemme.

L’esercito israeliano ha questo potere: tenere sospese le vite dei palestinesi, senza nessun motivo apparente. In realtà un motivo c’è, ed è fare in modo che piano piano il popolo palestinese si riduca, svanisca, così da poter continuare il  processo di occupazione e appropriazione di tutto il territorio del West Bank.

Sia attraverso lo sfinimento e la pressione fisico-psicologica, sia attraverso l’incarcerazione, il fine ultimo del governo israeliano è quello di non doversi più confrontare con il popolo palestinese  e non dover pensare alla soluzione del  “due popoli due stati”.

Ma una cosa forse ancora non è chiara ad Israele: quanto il popolo palestinese sia legato alla sua terra, quanto sia forte il desiderio di poterci vivere liberamente, quanto sia radicato nella loro volontà il diritto di fare ritorno nei loro luoghi di origine, da cui sono stati cacciati e che ora sono di fatto territori occupati e dove non è loro permesso accedere, quanto il fatto che la loro esistenza, dopo 70 anni di occupazione, sia in assoluto la manifestazione più forte della loro resistenza.

Free Palestine!

qui di seguito il video di come i ragazzi sono stati bloccati dai soldati israeliani.

West Climbing Bank torna all’azione

Il 7 novembre sono ricominciati gli allenamenti di arrampicata nel centro culturale Laylac, nel campo profughi di Deishesh. Sono gli stessi ragazzini, in età compresa tra i 10 e 16 anni, che decidono insieme quale giorno incontrarsi e a che ora: tutti i mercoledì e i giovedì alle 16. Questo perché è importante che loro si prendano in carico per primi la responsabilità di questi appuntamenti, che sentano l’importanza di allenarsi tutte le settimane, senza mancare dei pomeriggi. In effetti però guardando i loro occhi si riesce a leggere perfettamente il loro entusiasmo, la loro voglia di imparare nozioni tecniche, ma soprattutto di divertirsi insieme, in un modo diverso dal solito.

Lo sport dell’arrampicata, infatti, qui in Palestina, ma soprattutto in un campo profughi, non è cosi usuale. Sono davvero poche le palestre nel territorio che offrono alle persone di potersi allenare, e soprattutto di fare dei corsi. Inoltre nemmeno i materiali tecnici sono facili da reperire.

Con west climbing bank,  e altri progetti in Palestina, si sta quindi cercando di incentivare questo tipo di sport anche e soprattutto nei territori occupati, affinché diventi una pratica si sportiva, ma che reclami un senso politico: quello di presidio contro l’avanzata dell’occupazione israeliana.

Il 15 novembre grazie alla dimostrazione di impegno dei ragazzi, siamo andati ad allenarci nella prima vera e propria palestra di arrampicata costruita a Betlemme, “Palestine club for mountains sport”

E’ stata una sorpresa per tutti loro, che prima di partire si chiedevano quanto fossero alte le pareti: occhi scintillanti, tanti sorrisi, e in qualche secondo erano pronti a scaldarsi per arrampicare, per poi cimentarsi subito sulla parete più complicata e inclinata.

Per questi ragazzi in primo luogo west climbing bank vi chiede supporto per la raccolta del materiale, adatto a bambini e ragazzi, e di sostenere il nostro crowdfunding per poter incentivare maggiormente questa pratica sportiva come strumento per la  libertà.

Ieri, 23 luglio, è stata una giornata molto dura per i nostri amici del campo di Dheisha: molte persone sono state arrestate, decine i feriti e un ragazzo di 15 anni è stato ucciso durante una lunga operazione militare israeliana nei campi profughi attorno a Betlemme. Riportiamo le parole di un* compagn* presente nel campo in queste drammatiche ore.
Dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno di Gaza a marzo, passando per la inaugurazione dell’ambasciata USA a Gerusalemme e con l’approvazione dell’ultima legge nazionalista su “Israele Stato per gli ebrei”, l’offensiva israeliana su vasta scala contro il popolo palestinese è già iniziata.
Lunga vita alla Resistenza.

L’aria che sta tirando in Palestina non è un aria buona. Anzi la situazione peggiora di giorno in giorno. Il ritmo dei bombardamenti a Gaza incalza e i morti aumentano, si aggiungono ai più di 140 della Grande Marcia del Ritorno iniziata il 30 marzo, a cui imperterriti i palestinesi non rinunciano, nonostante tutto, tornano al border settimanalmente a chiudere la fine del blocco che da 12 anni inginocchia Gaza. Incalzano i morti, i martiri. Gli attacchi nei campi profughi in West Bank pure.

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