La soluzione democratica. Incontro con Jeff Halper
Il 6 gennaio abbiamo incontrato Jeff Halper, fondatore e attivista della Israeli Committe Against House Demolition (ICAHD) e punto di riferimento della sinistra antisionista israeliana. Lo incontriamo all’Educational Bookshop di Gerusalemme est: luogo di incontro per giovani e intellettuali israeliani e palestinesi, dove è possibile trovare i libri scritti sul conflitto e sulla questione palestinese. Se non tutti, quasi.
L’ultimo libro di Halper, “War against people” (tradotto in italiano da Epokè edizioni, “La guerra contro il popolo”), analizza l’egemonia israeliana all’interno del contesto di pacificazione globale portato avanti con la guerra permanente e la trasformazione degli stati in sistemi securitari e militari, di cui Israele è appunto il modello internazionale. Proprio per queste sue tesi il libro fatica a circolare all’interno. “War against people” è un vero e proprio manifesto contro la pacificazione.
L’ICAHD nasce come movimento interno alla parte progressista e rivoluzionaria della società civile israeliana: antimilitaristi, obiettori alla leva pacifisti, anarchici e comunisti, democratici antisionisti, disobbedienti civili. La demolizione delle case palestinesi è uno degli atti più violenti quanto più diffusi portati avanti da Tel Aviv: dal ’67 sono oltre 50mila le abitazioni distrutte nei Territori occupati. E parliamo di quelle registrate, senza considerare gli insediamenti di fortuna e precari realizzati nelle zone desertiche o nelle campagne di confine. Opporsi all’abbattimento significa lottare apertamente contro la colonizzazione e l’occupazione, costruendo di fatto un movimento politico capace di mettere insieme israeliani e palestinesi.
“Il nostro obiettivo è quello di una pace giusta: la pace può infatti essere il risultato solo della fine dello stato di apartheid imposto da Israele ai palestinesi”, ci dice Jeff. “La soluzione dei due Stati è ormai naufragata, finita: ed è stato proprio Israele a farla fallire. Non solo con l’occupazione, ma anche dopo gli accordi di Oslo. E’ ormai impossibile parlare di ‘due popoli, due Stati’. In questo momento la sovranità palestinese sarebbe ridotta a isole separate e sotto costante minaccia israeliana”.
Questi sono i motivi che hanno spinto l’ICAHD e la sinistra antisionista a formulare e portare avanti, pur nell’isolamento e nell’ostilità da parte della popolazione israeliana, la “one State democratic-solution”: “Un unico stato democratico, egualitario, senza caratterizzazione etnica o religiosa. Dove i palestinesi abbiano pieni diritti politici e civili. Perché questo si possa realizzare è necessario però mettere fine al potere militare israeliano e accettare il principio multietnico, che non significa solo convivenza, ma qualcosa di più”. In Israele questa soluzione ha ben pochi sostenitori: “C’è un vento di destra molto forte. Il governo effettivamente sostiene la soluzione dello Stato unico: peccato che sia quello della maggioranza ebraica e senza palestinesi. Ma l’unica opzione che abbiamo è lottare per la soluzione democratica”.
Fuori piove. E’ venerdì e a Gerusalemme est questo non significa solo che molti negozi sono chiusi, ma che la città è piena di pattuglie militari israeliane, perché questo è il giorno che tradizionalmente la popolazione palestinese dedica alla sua rabbia contro l’occupazione. La soluzione democratica sembra ben lontana in questo momento.
“Il vero problema è politico: in Israele la sinistra (non mi riferisco al Labour Party) non ha né un’organizzazione né una forza vera. E’ isolata. Ma i palestinesi dal canto loro non hanno un progetto, né una leadership. La popolazione dei campi profughi e della Cisgiordania è disillusa, stanca, ha una rabbia priva di prospettiva. L’Autorità nazionale è completamente delegittimata. Sapete chi è il primo a essere contrario alla sospensione dei fondi all’ANP minacciata da Trump? Proprio il governo israeliano. Tagliare i finanziamenti a Ramallah significa far collassare l’amministrazione palestinese in pochi mesi; e questo significa instabilità, col rischio che scoppi una nuova rivolta su ampia scala”.
Come ci dicevano anche gli attivisti di Save Jordan Valley, nemmeno l’azione delle ONG serve a costruire qualcosa nei Territori occupati, anzi: l’emergenza permanente priva di fatto i palestinesi della possibilità di costruire qualcosa di permanente. “La Palestina avrebbe le risorse per poter sviluppare una sua stabilità economica, ma gli aiuti umanitari vanno di pari passo con lo sfruttamento della terra e dell’acqua da parte dei coloni”.
E’ proprio sul piano economico e sociale che, secondo Halper, si gioca buona parte delle possibilità della soluzione democratica di affermarsi. “Il sistema israeliano di occupazione e guerra permanente non potrà andare avanti per sempre. L’economia di Tel Aviv si fonda su tre attività principali: l’esercito, la colonizzazione e il commercio di diamanti. Prima o poi il militarismo è destinato a collassare e allora bisognerà costruire una nuova società: quella democratica, appunto”. Nel frattempo, israeliani e palestinesi devono lavorare insieme, come fa l’ICAHD, per costruire un unico movimento politico che alla guerra opponga un progetto di società.
Tornando verso Deisha passiamo il checkpoint 300, quello che attraversa il Muro, e spuntiamo sulla strada principale che da Betlemme va verso il campo. Parlando con i ragazzi palestinesi che ci ospitano a casa loro per l’ultima cena prima della partenza, riscontriamo grande scetticismo riguardo la possibilità della soluzione democratica: “Se in Israele ci fosse un governo diverso, che accettasse il ritiro e la smilitarizzazione, semplicemente non sarebbe Israele”.
E’ difficile pensare qualcosa di diverso rispetto a ciò che fin da bambini gli ha sparato addosso e li ha incarcerati. Eppure, crediamo, questo è proprio uno dei risultati voluti: annullare ogni prospettiva che non sia rischiare la vita per le strade. Combattere l’apartheid è giusto e necessario. Quello che serve ora è tornare immaginare la Liberazione.
Gerusalemme est, 6/1/2018