Valle del Giordano: la guerra per l’acqua

Dopo interminabili ore di viaggio, numerosi checkpoint israeliani, l’ennesimo pranzo a base di pollo e riso, arriviamo a Bardala, villaggio palestinese situato nella valle del fiume Giordano, dove si trova la comunità che ha dato vita al progetto “Jordan Valley Solidarity”
( http://jordanvalleysolidarity.org/) . Dopo la cena (sempre pollo e riso, per non venir meno alla nostra dieta palestinese), R. ci ha presentato la situazione del loro territorio.

La presentazione di R. è stata molto descrittiva nella prima parte, nella quale ci ha esposto il contesto territoriale e il suo sviluppo nel corso degli anni dal 1967 ad oggi.
La valle del Giordano, infatti, fino alla guerra dei sei giorni era sotto controllo della Giordania: l’occupazione israeliana è arrivata più tardi rispetto ad altre parti del West Bank e la maggior parte degli abitanti non sono rifugiati, in quanto hanno continuato a vivere nella propria terra, subendo però i soprusi degli occupanti. L’economia della valle si fonda principalmente sull’allevamento e l’agricoltura. Secondo gli accordi di Oslo, la valle è stata divisa nelle famose tre zone: la maggior parte è ricaduta in zona C, sotto controllo esclusivo israeliano. In particolare, il 56% della Jordan Valley è stata dichiarata “military zone”: si tratta di una zona utilizzata dai soldati israeliani per addestrarsi, in cui è vietato l’accesso agli abitanti autoctoni. Questa valle è infatti di grande importanza strategica per Israele, in quanto permette di controllare sia l’accesso al Mar Morto sia il confine con la Giordania: qualsiasi palestinese voglia arrivare al mare o passare in Giordania, è ora costretto ad attraversare i checkpoint israeliani. Prima del ’67, invece, non c’era bisogno di alcun passaporto.
Un ulteriore 15% del territorio è stato sottratto ai palestinesi dalle numerose colonie: in questa valle è sorta la prima colonia israeliana e, osservando la mappa, è diventato difficile trovare i villaggi palestinesi tra le decine di insediamenti illegali. Bisogna ricordare che, secondo l’articolo 49 della convenzione di Ginevra, è fatto divieto ad uno Stato occupante lo spostamento di propri cittadini sul territorio dello Stato occupato: l’ennesima legge del diritto internazionale che gli israeliani disattendono senza alcun tipo di sanzione.
È la risorsa idrica a giocare un ruolo essenziale nella lotta in questa parte di West Bank: le riserve idriche sono infatti totalmente sotto controllo israeliano, i palestinesi devono pagare le compagnie israeliane per poter accedere all’acqua che scorre nella loro terra natia. Per incentivare l’immigrazione di coloni in queste terre (che attualmente costituiscono il 13% della popolazione locale ma sfruttano l’86% delle risorse della valle), lo stato israeliano permette numerosi benefici fiscali. Ad esempio, le tasse sull’acqua sono il 75% in meno che nei territori palestinesi occupati. Come se ciò non bastasse, i water block (ostruzione dei canali di irrigazione palestinesi da parte dei soldati israeliani) sono una pratica comune e consolidata. Alcuni villaggi sono così costretti a pagare le autobotti per avere assicurata l’acqua potabile, ma anche qui succede spesso che i soldati israeliani confischino gli automezzi ai checkpoint, lasciando intere comunità palestinesi senza acqua per giorni e giorni. La risorsa idrica viene così utilizzata con il preciso scopo di spingere i palestinesi ad abbandonare le proprie terre, ed una terra incolta diviene immediatamente (secondo la legge israeliana) israeliana.
Ma la valle del Giordano non è soltanto area militare o area sottratta dalle colonie: l’1% del territorio è infatti cosparso di mine antiuomo ed un’altra parte è occupata dalla presenza del muro. Alla fine, solo il 15% del territorio si trova effettivamente in area A o B. Riguardo alle zone minate, lo scopo principale è quello di intimorire i palestinesi in modo tale da tenerli lontani dai loro terreni. In questo modo, i militari possono procedere allo sminamento e destinarli alle coltivazioni dei coloni: più del 70% dei datteri che arrivano in Europa dalla valle del Giordano, ad esempio, sono prodotti da coloni israeliani su terre confiscate a nativi palestinesi.
Un dato interessante che R. ci riporta è il fatto che molti coloni provengono da altri Stati (Russia, Europa, America): si tratta di sionisti attratti dagli incentivi economici dello stato israeliano, il più delle volte cittadini poveri che qui trovano una condizione di vita economicamente migliore che in patria. Israele, quindi, sfrutta anche la leva economica per incentivare l’arrivo di occupanti.
Un’altra parte del territorio palestinese, infine, è stato sottratto dagli israeliani per costituire delle riserve naturali. Qui l’accesso è vietato ai palestinesi, che non possono nemmeno utilizzare quei campi per l’allevamento o la raccolta delle diverse erbe utili nella cucina o nella medicina palestinese. In più, ogni primavera, vasti appezzamenti di terreni incolti vengono appositamente bruciati dai soldati israeliani in modo tale da non permettere il pascolo estivo ai pastori palestinesi.

Nella seconda parte della presentazione, R. ci ha invece descritto il lavoro che JVS porta avanti nella valle. Oltre a sostenere il BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzione) nei confronti di Israele (https://www.bdsitalia.org/ ), oltre ad ospitare gruppi di internazionali affinché possano vedere con i propri occhi cosa significa vivere sotto l’occupazione sionista, oltre a forme artistiche di resistenza come il teatro dove si mettono in scena spettacoli che parlano dell’occupazione, la JVS si occupa della costruzione di “sustainable buildings”. Utilizzando solo l’argilla e la terra locale, R. e gli altri e le altre costruiscono i mattoni necessari per abitazioni, scuole, cliniche (attualmente sono state realizzate 6 scuole, diversi piccoli presidi sanitari e più di 250 case). L’utilizzo della terra per costruire i mattoni è dovuto a due motivi. Da una parte, JVS dimostra un rispetto raro verso l’ambiente e la natura della valle: trattandosi di realtà contadine, questa attenzione si dimostra essenziale per la loro stessa sopravvivenza.
Secondariamente, i mattoni sono facilmente riutilizzabili. R. ci spiega infatti che, trovandosi in zona C, gli israeliani possono abbattere qualsiasi costruzione palestinese. In particolare, gli attivisti della JVS stanno attenti a costruire le case nell’arco di una giornata, costruendo il tetto contemporaneamente alle mura: i militari possono infatti distruggere direttamente la costruzione finché il tetto non è finito, ma se il tetto è costruito devono prima farsi emettere un’ordinanza di demolizione.
A fine presentazione, una donna del villaggio ci ha raccontato di quando i militari israeliani sono entrati in casa sua in piena notte. Ci ha stupito l’ironia e l’ilarità con cui questo avvenimento è stato raccontato. In pochi minuti, l’intera capanna è scoppiata in grandi risate. Anche l’ironia con cui la donna ha affrontato i militari (ad esempio chiedendo se poteva pagare la sanzione in rate mensili) è una preziosa forma di resistenza: rendere ridicoli i militari ed il potere sionista ha un profondo significato per  tutta la popolazione palestinese resistente.

Tornando a Laylac, abbiamo ragionato sulle diverse forme di resistenza che abbiamo incontrato in questi giorni. Alcune comunità palestinesi, infatti, portano avanti una lotta non violenta, volta alla preservazione delle loro condizioni di vita e della propria terra, mentre altri pongono l’accento soprattutto sul diritto al ritorno. Ovviamente, i primi sono principalmente realtà come Youth of Sumud (incontrati lo scorso anno ad At-Tuwani  https://wcb.abbiamoundominio.org/youth-of-sumud-i-giovani-della-resistenza/) o JVS: si tratta di palestinesi che non sono rifugiati né internally displaced, e che quindi si concentrano sulla difesa della propria comunità. I rifugiati, invece, incentrano la loro lotta sulla volontà di tornare nelle case da cui sono stati allontanati nel 1948 o nel 1967. Ci è capitato di notare il disaccordo tra queste due visioni della lotta contro il comune oppressore israeliano.

Osservando questo disaccordo tra chi porta avanti la lotta con metodi e obiettivi diversi, ma contro un nemico comune, viene spontaneo paragonarlo a quello che viviamo in luoghi a noi più vicini. Con le dovute differenze (qui le comunità resistono ad un regime di occupazione militare ed apartheid quotidiano), anche nelle esperienze politiche che conosciamo e che viviamo si sviluppano spesso forti contrapposizioni.
Ma ci chiediamo: c’è una parte che ha ragione, ed una che ha torto? Ha senso delegittimare i metodi di lotta altrui? Quanto questa delegittimazione fa buon gioco all’oppressore di turno?

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