Un popolo in galera

Ogni palestinese è stato incarcerato almeno una volta da Isreale e almeno un suo famigliare o un conoscente ha sperimentato la realtà della detenzione per motivi politici, perpetrata dall’occupante.

Uno dei dispositivi repressivi più utilizzati è la detenzione amministrativa, una forma di incarcerazione preventiva autorizzata senza sentenza ne giudizio, da parte di un giudice o una corte, che prevede l’arresto e la detenzione per sei mesi, prorogabili all’infinito.

Scopo dichiarato: anticipare gli attacchi dei “presunti terroristi” incarcerandoli prima di un eventuale azione.

Scopo reale: arrestare arbitrariamente e ingiustificatamente donne, uomini, bambine e bambini palestinesi così da poterli detenere nelle carceri israeliane, spesso anche per anni, contravvenendo a qualsiasi legge internazionale.

Questo è il tentativo di spaventare la popolazione applicando pene esemplari, incarcerando chi viene reputato perno delle comunità palestinesi. La detenzione amministrativa è un controsenso giuridico in quanto non esiste reato. Si suppone la colpevolezza dell’arrestato per un’azione che non ha mai compiuto e lo si incarcera semplicemente perché è palestinese.

Abbiamo conosciuto numerose storie di prigionieri politici palestinesi che hanno attraversato esperienze tragiche, dimostrando grande determinazione e resistenza.

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Nablus e New Askar

Oggi ci troviamo a Nablus, ospiti di Human Supporter Association, impegnata nella formazione ed educazione di bambine e bambini. A causa della scarsità dei servizi e delle strutture scolastiche, le classi sono spesso sovraffollate, arrivando ad avere in media 40 alunni. Gli insegnati hanno difficoltà a seguire in maniera adeguata tutti gli studenti, così inevitabilmente alcuni bambini rimangono indietro. In questo contesto, HSA svolge un importante lavoro di doposcuola, recupero e svago: i 30-40 volontari, tra cui molti internazionali, seguono quotidianamente circa 150 bambini. M. ci spiega che il lavoro di HSA è importante non solo per migliorare il loro presente, ma soprattutto per le generazioni future. I bambini sono infatti le vittime più sensibili e meno tutelate e sono numerosi i casi in cui sviluppano problemi psicologici, come la depressione.

Questo è un altro effetto indiretto dell’occupazione: la creazione di un trauma generazionale che si ripercuote sul futuro delle generazioni seguenti. Tutto ciò indebolisce il popolo palestinese dalle sue fondamenta e favorisce la politica repressiva israeliana. Anche questa è una delle forme utilizzate per sviluppare l’ “occupazione mentale”, cioé abituare un popolo a vivere e crescere nell’oppressione.

M. ci spiega, inoltre, le enormi difficoltà riscontrate dai volontari internazionali nella permanenza sul suolo palestinese. Israele non rilascia permessi per il volontariato in ambito umanitario: gli internazionali sono perciò costretti a richiedere ogni tre mesi un visto turistico, con il rischio di essere respinti.

L’associazione propone metodi creativi e coinvolgenti per lo studio e i momenti di gioco, e cerca di superare la forte separazione di genere e religiosa, strutturando attività miste. I numerosi feedback positivi hanno permesso di superare le iniziali titubanze e conquistare la fiducia delle famiglie.

Ogni grande città palestinese ha il suo campo profughi, spesso più di uno: così come Betlemme anche Nablus è circondata da labirinti di cemento. New Askar nasce a causa del sovraffollamento del campo di Askar. L’aumento dei rifugiati e la crescita demografica hanno portato all’esaurimento dello spazio per costruire nuove abitazioni, portando le persone a sviluppare un nuovo insediamento a 1 km di distanza.

Il campo non è mai stato riconosciuto dall’UNRWA, e per questo motivo non ha beneficiato di alcun tipo di progetto umanitario: non vi sono ospedali, ma un unico medico per 8000 profughi, e fino a poco fa i bambini andavano nella scuola del campo di Askar. Recentemente il finanziamento di una ONG svedese ha permesso la costruzione di un edificio scolastico e l’assunzione di un insegnante.

Negli ultimi anni, l’UNRWA ha smesso di riconoscere nuovi campi profughi. Anche dove già presente ha cominciato a sfilarsi riducendo l’impegno, infatti, sta per scadere il comodato d’uso degli spazi in cui propone i propri progetti, che era stato dato per 99 anni. Questo perchè l’idea era quella che la questione israelo-palestinese si sarebbe risolta entro questo lasso di tempo, e dopo non avrebbero più dovuto esserci profughi. Tuttavia, è evidente che la diplomazia ha finora fallito, e quindi l’UNRWA preferisce non riconoscere l’esistenza di nuovi profughi: come se bastasse negare questa evidenza per risolvere il problema.

The fight here is about the land

Tulkarem, a nord ovest di Nablus, è una cittadina divisa in due parti dal muro che delimita i territori occupati della Cisgiordania.

Qui incontriamo Faiez, contadino e attivista, che ha deciso di trasformare il lavoro della terra in un progetto estremamente innovativo e lungimirante; Hakoritna farm. Oltre ad avere come “vicino” il muro, il terreno confina con una fabbrica chimica, spostata in territorio palestinese dopo le proteste dei cittadini israeliani a causa della sua nocività.

Nel 1984 decide di tornare a coltivare le terre della sua famiglia, rimaste incolte e utilizzate come  campo da calcio dai soldati israeliani, come unica soluzione contro l’avanzamento dell’occupazione. Durante la prima e la seconda intifada, è stata sua moglie Muni a portare avanti il lavoro e ad assicurare sempre il cibo ai loro figli, creando una rete di donne nella stessa condizione.

I metodi di coltivazione utilizzati sono volti alla completa indipendenza dal capitalismo e all’autosufficienza.  La permacoltura, l’agricoltura organica e le colture idroponiche permettono di sfruttare al meglio le risorse naturali nel rispetto dell’ecosistema. Per la prima volta notiamo che l’amore per la terra si esprime anche in una cura profonda di essa, e lo vediamo camminando per i campi e le serre puliti e rigogliosi.

Insieme a sua moglie Muni, Faiez è riuscito addirittura a creare in piccolo un sistema di coltura idroponica. Questo metodo permette di utilizzare le feci dei pesci per portare i nutrienti alle piante, che non vengono coltivate nella terra ma in vasche piene di pietre porose: in questo modo l’acqua non è assorbita e può essere rimessa in circolo, tornando a ossigenare la vasca dove vivono i pesci. Il suo sogno è quello di estendere questo metodo all’intera piantagione per essere completamente indipendente dall’acquisto di risorse idriche dalle compagnie israeliane. Infatti, il 65% dell’acqua utilizzata a Tel Aviv proviene dalla West Bank, ma il 95% dei Palestinesi è costretto a comprarla da tali compagnie.

L’autosufficienza è raggiunta non solo dal punto di vista delle risorse idriche e alimentari, ma anche da quello energetico. Il biogas prodotto dal digestore anaerobico è utilizzato per cucinare e i suoi scarti per concimare e i pannelli fotovoltaici per alimentare la ventola di un essiccatore solare.

Faiez mantiene viva ancora oggi una tradizione antica di selezione delle piante, in questo modo è riuscito a costruire una piccola banca dei semi che gli permette di non doverli comprare dalle multinazionali e non dover utilizzare pesticidi.

L’attivismo di Faez si manifesta attraverso la sperimentazione di metodi alternativi per un’agricoltura sostenibile, attraverso il presidio quotidiano della propria terra contro l’occupazione e nella condivisione di queste esperienze con la comunità internazionale. Solo due mesi fa è stato invitato dai parlamentari irlandesi per condividere la sua esperienza e grazie anche a questa testimonianza, l’Irlanda oggi è il primo Paese europeo ad avere una legge per il boicottaggio di Israele.

Ci continua a stupire l’estrema ospitalità palestinese; anche oggi siamo stati accolti da un avvolgente calore umano e una tradizionale e gustosa makluba, accompagnata da canti e condivisione di ricordi.

Come i ragazzi di Youth of Sumud, ogni azione quotidiana di Faez e Muni è un’ulteriore esempio di resistenza e lotta non violenta per la libertà.

A sud di Hebron si estende un territorio collinare desertico che accoglie nelle sue brulle terre, piccoli villaggi di pastori. In piena area C, a ridosso della linea verde, confine meridionale della Cisgiordania, si trova il paesino di At-Tuwani.

Accanto alla via che porta all’unica scuola della zona, i coloni hanno costruito un avamposto. Ci racconta S.: “Quel bosco sulla collina è stato piantato per proteggere le tende e i container dove si sono stabiliti i coloni. Questi sono i più radicali tra i sionisti. Aggrediscono chiunque abiti in questi territori, non vogliono che i palestinesi camminino su queste terre. Anche Israele considera illegali gli avamposti, ma dato che sono un comodo strumento per l’invasione dopo poco tempo li regolarizza.”

Il sentiero che da At-tuwani porta a Tuba passa tra la colonia e un avamposto, gli scolari e le scolare che percorrevano queste strade per raggiungere la scuola venivano aggrediti violentemente dai coloni che li insultavano, li picchiavano e gli lanciavano pietre. La paradossale soluzione trovata da Israele è stata mandare l’esercito a scortarli.

La strada è accessibile solo ai bambini, mentre per i tanti pastori della zona il passaggio è proibito. Nonostante ciò, quotidianamente portano a pascolare le pecore proprio a fianco dell’avamposto per rallentarne l’espansione.

Questa è una delle tante pratiche che gli abitanti del villaggio considerano parte della loro “resistenza esistenziale”, una serie di gesti quotidiani che gli hanno permesso di vincere molte importanti battaglie.

Uno dei più grandi risultati è stato l’abbattimento di un muro di separazione di 41 km. Per più di due anni la popolazione dei vari villaggi fermava le proprie attività quotidiane e si dava appuntamento ad At-Tuwani per bloccare la strada.

Il padre di S. ci racconta: “Per noi la pratica della resistenza non violenta è molto importante. Tutti i villaggi si sono mobilitati. La partecipazione delle donne è stata massiccia e fondamentale ed è una grande vittoria che uomini e donne abbiano lo stesso protagonismo nella lotta all’occupazione”.

Per opporsi ai numerosi illeciti israeliani i palestinesi hanno anche intrapreso svariate azioni legali. Le numerose manifestazioni e l’attenzione mediatica hanno portato la corte d’Israele a riconoscere al villaggio un diritto che dovrebbe essere naturale, quello di esistere.

Un’altra delle caratteristiche di questa zona è la presenza di grotte naturali. La popolazione locale storicamente abitava questi anfratti sviluppando intorno ad essi i propri villaggi. Nel 1999 le case e le grotte sono state sgomberate e completamente distrutte dall’esercito. L’obiettivo era scacciare le persone oltre la strada che delimita l’area tra At-Tuwani e la linea verde, per assimilare parte del territorio. A
questo proposito, buona parte della zona è stata dichiarata area di addestramento militare.

Nel 2017 un gruppo di giovani, “Youth of Sumud“, ha deciso di far rivivere il villaggio di Sarura come presidio contro l’espansione di Israele. Ci raccontano: “Ogni giorno abitiamo in queste grotte. Le abbiamo ampliate a mano, con scalpelli e picconi, perchè ogni attrezzatura meccanica viene confiscata. Persino il bagno chimico è stato sottoposto ad ordine di demolizione. Siamo in area C, qui Israele controlla e nega ai palestinesi l’accesso alle risorse di base, come acqua ed elettricità. Non si può costruire nulla, per questo abbiamo pensato di tornare nelle grotte. Lo scopo di questi lavori è di rendere abitabili questi spazi in modo  che le famiglie possano tornare a viverci ed avviare un processo di riappropriazione del territorio”.

 

All’ingresso nella grotta ci accoglie una bandiera No Tav che una delle Girls of Sumud ha preso l’8 Dicembre alla manifestazione a Torino. 

 

Climbing and bolting Battir

Quale miglior modo per chiudere l’anno, se non con un uscita a Battir tutti assieme?

Accompagnati dal sole splendente, partiamo dal campo di Dehisha in direzione della falesia di Battir. Il gruppo eterogeneo composto da scalator*, chiodator*, non espert*, palestines* e non, bambin*, ragazz*, uomini e donne. Ognuno ha trovato lo spazio per viversi al meglio questa splendida giornata. C’è chi chioda nuove vie, obiettivo principale del progetto West Climbing Bank, chi aiuta i bambini nei loro primi passi sulla roccia, chi insegna a suonare la chitarra, e chi si occupa di raccogliere i rifiuti e pulire i sentieri. In una sinergia comune, accompagnati dal canto del moezin, dal bongo, dalla chitarra, dalle risate finalmente spensierate abbiamo passato la giornata con leggerezza. Calato il sole, col tramonto ci apprestiamo a festeggiare il capodanno nel deserto!
Presto condivideremo informazioni più tecniche rispetto alle vie aperte, quindi stay tuned!!

 

Al Khalil

Nella città vecchia di Hebron piove merda. Il primo impatto con la città è devastante per tanti motivi.

Ci è subito tornata alla mente la suggestione di O.: “Ci sono sionisti che passano le loro notti a bere caffè, fumare sigarette e pensare a come rovinarci la vita”. A Hebron questo si vede benissimo. Il centro della città è divisa a metà: la parte inferiore è dei palestinesi e la parte superiore è dei coloni.

I pochi negozianti rimasti ci tengono subito a mostrare i rifiuti di ogni tipo che i coloni lanciano dall’alto per umiliare gli abitanti della via. Delle reti protettive evitano di esporre i passanti al lancio degli oggetti solidi, ma i coloni hanno imparato a gettare liquidi e liquami come uova marce, candeggina e bottiglie piene d’urina. Al di sopra delle reti la vita dei coloni scorre indisturbata in appartamenti di lusso, con campi da basket sui tetti, scuole attrezzate e trasporti pubblici efficienti. Il ragazzo di Hebron che ci ha accompagnato racconta: “Quando andavo al mercato con mio padre queste strade erano affollate e vive. Lì in fondo c’era la stazione dei taxi, adesso nessun palestinese può entrare, chi viene rischia la vita. La mia cuginetta è stata uccisa da un militare per strada. La giustificazione dell’omicidio è stata la presunta minaccia della bambina a causa del possesso di un coltello. Ma chi crederebbe mai possibile che una bambina possa essere pericolosa per un soldato armato fino ai denti?”.

Questa città è un caso unico in Cisgiordania. Per quanto gli accordi di Oslo del 1993 non vengano mai rispettati, qui una serie di accordi successivi ha suddiviso il territorio in sei zone, ognuna con diverse regole. La costruzione di colonie in zona A sarebbe vietata dal diritto internazionale, ma ad Hebron la prima colonia risale agli anni 60’. Nel 1968 un rabbino armato occupò un albergo rifiutando di andarsene, l’intervento di Israele permise il suo trasferimento in quella che diventò la prima colonia. L’organizzazione sionista ha sfruttato la presenza storica di ebrei palestinesi in città per rivendicare il diritto al suolo come stato d’Israele incentivando il trasferimento dei coloni più estremisti che non si fanno scrupoli a utilizzare la violenza per espropriare le case ai palestinesi.

Successivamente in diverse fasi gli insediamenti si sono espansi sia in numero che in estensione. Questo ha permesso la progressiva conquista del controllo di tutta la città. La nostra guida, A. ci ha mostrato su una mappa che per raggiungere due punti a un minuto di distanza a piedi gliene occorrono 40 perché il passaggio nelle vie che li collegano direttamente è proibito ai palestinesi. Sono obbligati a prendere la macchina e a circumnavigare la città per raggiungere lo stesso punto.

Dopo la seconda intifada del 2000 Israele ha portato il livello di segregazione a uno stadio successivo. Le due macrozone sono denominate H1 e H2, ma non serve un muro per ricordare il vincolo ai palestinesi. La barriera è stata eretta nelle menti degli abitanti, ormai quasi nessuno visita il mercato centrale. Anche se l’accesso sarebbe permesso, il timore di subire umiliazioni e violenze sta uccidendo la vita in quello che era il cuore della città.

I negozi sono stati chiusi con la forza dall’inizio dell’occupazione: il progetto israeliano è il dominio dell’intera città. Una scuola di recente costruzione è stata nominata “Kiryat Arba”, il nome della colonia più estesa, a pochi chilometri dal centro storico: una vera e propria dichiarazione d’intenti. Un anziano negoziante ci racconta: “Ho iniziato a lavorare qui con mio padre a 7 anni, sono cinquant’anni che lavoro in questo negozio. Ormai non guadagniamo quasi niente dalle nostre attività, ma restiamo qui per resistere. Alcuni di noi dormono dentro al negozio per evitare l’esproprio. Guardate lì sopra quelle reti, questa è l’immondizia che ci tirano addosso. Non meritiamo tutto questo, siamo brava gente e non facciamo male a nessuno”.

Mentre ci separiamo dalla nostra guida, che non può entrare con noi in quella che era la strada principale e ora è solo una città fantasma, un gruppo di giovani in abbigliamento sportivo passa di fronte a noi. Sono i soldati che fanno jogging e si allenano circondati dalla desolazione come se tutto questo fosse normale.

Come un cancro la colonia corrode la vita della vecchia città e al suo interno i coloni vivono, nonostante il lusso, in un ambiente inospitale, una prigione allucinatoria votata alla distopia della terra promessa.

È difficile trasmettere il senso di angoscia e di vuoto che ci ha lasciato la visita della zona colonizzata, ma la determinazione, l’orgoglio e l’ospitalità di ogni singola persona con cui abbiamo avuto la possibilità di parlare ci ha dimostrato che di fronte all’apartheid la resistenza non si fermerà.