No Justice, No Peace
La sede dell’associazione Badil si trova nel centro di Betlemme, nella zona sotto controllo dell’Autorità nazionale palestinese. Dal 1998, anno della sua fondazione, decine di attivisti hanno lavorato cercando di affrontare la questione palestinese sul versante dei diritti umani. Ci racconta S., che ci accoglie al nostro arrivo: “Per noi non è corretto parlare di ‘conflitto israelo-palestinese’: non c’è mai stata una dinamica di azione-reazione, perché il nostro popolo ha subito l’attuazione di un piano strategico di colonizzazione. In 70 anni il principio che ha seguito lo Stato israeliano è stato ‘Il massimo della terra, con il minimo di palestinesi’ “.
Nel corso degli anni, Badil ha scelto di lavorare sul fronte dei diritti umani e, in particolare, su una delle battaglie chiave per i palestinesi, il diritto al ritorno. Su una popolazione totale di 7.8 milioni di persone, il 66% vive fuori dalla Palestina storica, con lo status di rifugiato politico dal ’48 a cui si aggiungono gli sfollati dopo la guerra del ’67; solo 500 mila palestinesi vivono come cittadini non profughi.
Già solo questi numeri spiegano l’importanza centrale del lavoro sul diritto internazionale violato e la continua denuncia, che Badil cerca di portare avanti anzitutto nei territori palestinesi frammentati. “Una delle armi di Israele è l’informazione: la forte divisione territoriale e amministrativa rende anche difficile che arrivino tutte le notizie. Distorcere i fatti e gli avvenimenti che avvengono tra Israele, la Cisgiordania e Gaza serve a confondere i palestinesi e distogliere l’attenzione della comunità internazionale da ciò che sta realmente avvenendo: la sostituzione più o meno silenziosa della popolazione palestinese con quella israeliana”.
La guerra dei permessi è il principale terreno su cui si svolge la guerra di logoramento: anche nella zona A, dove ha giurisdizione l’Anp, non solo per muoversi e lavorare fuori dalla propria città di residenza, ma anche per essere riconosciuti alla nascita c’è bisogno del permesso di Israele. Infatti, gli accordi di Oslo prevedono una sovranità limitata per l’Anp, per cui i diversi gradi di cittadinanza sono decisi da Tel Aviv. Costruire una famiglia espone sempre a un rischio le future figlie e i futuri figli, perché sono molti i casi di bambini nati e cresciuti senza documento di identità, perché le autorità israeliane per i più svariati motivi (ad es., in base all’attivismo passato o presente dei genitori) vuole bloccare la crescita della popolazione palestinese.
“Noi rifiutiamo per questi motivi qualunque tipo di discorso sulla pace che non contempli la giustizia. Negli ultimi anni abbiamo perso la maggioranza dei nostri finanziamenti perché i nostri progetti parlano di ‘apartheid’, ‘diritto al ritorno’, ‘colonialismo’ e delle violazioni israeliane del diritto e delle risoluzioni internazionali”. Il problema principale che devono affrontare ora al centro Badil è proprio quello economico e di sostenibilità delle attività.
Tornando verso Deisha, le strade attorno al Muro erano bloccate per le dimostrazioni che ogni venerdì si svolgono in tutta la Cisgiordania non solo contro l’occupazione, ma anche a seguito delle dichiarazioni di Trump. Nelle vie si riversa in diverse zone la popolazione dei quartiere, in particolare i più giovani, che fin da piccoli imparano a riconoscere i tipi di gas lacrimogeni e di colpi sparati dai militari israeliani a difesa del Muro. In questo momento è una delle principali forme di resistenza popolare che possono portare avanti i palestinesi.
“Tutte le forme di resistenza sono legittime, perché nascono come risposta alla violazione di diritti naturali della popolazione”, ci dice a questo proposito anche J., del centro Laylac, mentre ci accompagna nel cuore del campo Deisha. Come raccontavamo anche ieri, Laylac è stata fondata nel 2010 da giovani per giovani, organizzando attività culturali e ricreative in una struttura autonoma. All’interno della sede ci sono i ritratti di alcuni volontari del centro, uccisi dai militari negli ultimi anni. Anche i muri di Deisha raccontano, attraverso i loro volti, le storie di molti ragazzi caduti durante blitz dell’esercito all’interno del campo. “Troppo spesso capita che giovani o giovanissimi di Deisha o di altri campi profughi siano uccisi, è una sorte che può toccare ad ognuno di noi e lo sappiamo bene. Per questo amiamo la vita e cerchiamo ogni gorno di esaltare quanto di più normale è semplice ci possa essere, dopotutto vorremmo solamente poter vivere una vita normale, nella nostra terra, con le nostre famiglie ed amici”.
Se qualcosa può nascere, in questo momento di crisi per le organizzazioni storiche palestinesi, è proprio dai più giovani nati e cresciuti in questi campi profughi diventati col tempo città. Con alcuni di loro nei prossimi giorni inizieremo a scalare.
Betlemme, 29/12/2017