Al Khalil
Nella città vecchia di Hebron piove merda. Il primo impatto con la città è devastante per tanti motivi.
Ci è subito tornata alla mente la suggestione di O.: “Ci sono sionisti che passano le loro notti a bere caffè, fumare sigarette e pensare a come rovinarci la vita”. A Hebron questo si vede benissimo. Il centro della città è divisa a metà: la parte inferiore è dei palestinesi e la parte superiore è dei coloni.
I pochi negozianti rimasti ci tengono subito a mostrare i rifiuti di ogni tipo che i coloni lanciano dall’alto per umiliare gli abitanti della via. Delle reti protettive evitano di esporre i passanti al lancio degli oggetti solidi, ma i coloni hanno imparato a gettare liquidi e liquami come uova marce, candeggina e bottiglie piene d’urina. Al di sopra delle reti la vita dei coloni scorre indisturbata in appartamenti di lusso, con campi da basket sui tetti, scuole attrezzate e trasporti pubblici efficienti. Il ragazzo di Hebron che ci ha accompagnato racconta: “Quando andavo al mercato con mio padre queste strade erano affollate e vive. Lì in fondo c’era la stazione dei taxi, adesso nessun palestinese può entrare, chi viene rischia la vita. La mia cuginetta è stata uccisa da un militare per strada. La giustificazione dell’omicidio è stata la presunta minaccia della bambina a causa del possesso di un coltello. Ma chi crederebbe mai possibile che una bambina possa essere pericolosa per un soldato armato fino ai denti?”.
Questa città è un caso unico in Cisgiordania. Per quanto gli accordi di Oslo del 1993 non vengano mai rispettati, qui una serie di accordi successivi ha suddiviso il territorio in sei zone, ognuna con diverse regole. La costruzione di colonie in zona A sarebbe vietata dal diritto internazionale, ma ad Hebron la prima colonia risale agli anni 60’. Nel 1968 un rabbino armato occupò un albergo rifiutando di andarsene, l’intervento di Israele permise il suo trasferimento in quella che diventò la prima colonia. L’organizzazione sionista ha sfruttato la presenza storica di ebrei palestinesi in città per rivendicare il diritto al suolo come stato d’Israele incentivando il trasferimento dei coloni più estremisti che non si fanno scrupoli a utilizzare la violenza per espropriare le case ai palestinesi.
Successivamente in diverse fasi gli insediamenti si sono espansi sia in numero che in estensione. Questo ha permesso la progressiva conquista del controllo di tutta la città. La nostra guida, A. ci ha mostrato su una mappa che per raggiungere due punti a un minuto di distanza a piedi gliene occorrono 40 perché il passaggio nelle vie che li collegano direttamente è proibito ai palestinesi. Sono obbligati a prendere la macchina e a circumnavigare la città per raggiungere lo stesso punto.
Dopo la seconda intifada del 2000 Israele ha portato il livello di segregazione a uno stadio successivo. Le due macrozone sono denominate H1 e H2, ma non serve un muro per ricordare il vincolo ai palestinesi. La barriera è stata eretta nelle menti degli abitanti, ormai quasi nessuno visita il mercato centrale. Anche se l’accesso sarebbe permesso, il timore di subire umiliazioni e violenze sta uccidendo la vita in quello che era il cuore della città.
I negozi sono stati chiusi con la forza dall’inizio dell’occupazione: il progetto israeliano è il dominio dell’intera città. Una scuola di recente costruzione è stata nominata “Kiryat Arba”, il nome della colonia più estesa, a pochi chilometri dal centro storico: una vera e propria dichiarazione d’intenti. Un anziano negoziante ci racconta: “Ho iniziato a lavorare qui con mio padre a 7 anni, sono cinquant’anni che lavoro in questo negozio. Ormai non guadagniamo quasi niente dalle nostre attività, ma restiamo qui per resistere. Alcuni di noi dormono dentro al negozio per evitare l’esproprio. Guardate lì sopra quelle reti, questa è l’immondizia che ci tirano addosso. Non meritiamo tutto questo, siamo brava gente e non facciamo male a nessuno”.
Mentre ci separiamo dalla nostra guida, che non può entrare con noi in quella che era la strada principale e ora è solo una città fantasma, un gruppo di giovani in abbigliamento sportivo passa di fronte a noi. Sono i soldati che fanno jogging e si allenano circondati dalla desolazione come se tutto questo fosse normale.
Come un cancro la colonia corrode la vita della vecchia città e al suo interno i coloni vivono, nonostante il lusso, in un ambiente inospitale, una prigione allucinatoria votata alla distopia della terra promessa.
È difficile trasmettere il senso di angoscia e di vuoto che ci ha lasciato la visita della zona colonizzata, ma la determinazione, l’orgoglio e l’ospitalità di ogni singola persona con cui abbiamo avuto la possibilità di parlare ci ha dimostrato che di fronte all’apartheid la resistenza non si fermerà.