Così il genero di Trump e l’erede Saud vogliono chiudere il conflitto israelo-palestinese

Dietro la svolta di Trump su Gerusalemme, c’è il piano di pace Kushner-Salman, che punta anche a sciogliere il nodo del diritto al ritorno. Con scarsa diplomazia e una montagna di soldi. Comunque vada a finire c’è già un vincitore (Netanyahu) e uno sconfitto (il popolo palestinese). Ma un merito il piano ce l’ha.

Eugenio Dacrema

Mercoledì, 06 Dicembre 2017 su http://eastwest.eu/it/opinioni/opendoors/arabiasauditastatiuniticonflittoisraelepalestinakushnerbinsalman

Ci sono almeno due millennials molto potenti nel mondo oggi. Si chiamano Jared Kushner e Mohammed bin Salman. E hanno un piano.

Il primo è il genero e uomo di fiducia dell’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il secondo è l’erede al trono e governante di fatto dell’Arabia Saudita, primo esportatore al mondo di petrolio. I due si conoscono, sono amici, e leggenda vuole che pochi mesi fa abbiano passato un’intera nottata a parlare di visioni e progetti futuri.

Tra questi progetti ce n’è almeno uno che sembra emergere con decisione in questi giorni e riguarda Israele e la Palestina. Più precisamente, riguarda quello che è forse l’obiettivo più sfuggente e agognato di ogni diplomatico degli ultimi 60 anni, qualcosa che ha eluso gente come Henry Kissinger e Madeleine Albright fino ad arrivare a Barak Obama e John Kerry: una risoluzione definitiva del conflitto israelo-palestinese. I dettagli del piano sarebbero in teoria segreti, prerogativa dei due giovani rampanti e della fatidica notte di Riyadh. Ma siccome non trattasi di soggetti che amano particolarmente le sofisticazioni e i bizantinismi della diplomazia tradizionale, pochi mesi e poche mosse cruciali sono bastate per renderne intuibili almeno i tratti fondamentali.

Prima di descriverli è però necessario fare un passo indietro e guardare il quadro d’insieme in cui ci si sta muovendo.

Negli ultimi anni si è infatti parlato degli ostacoli al processo di pace israelo-palestinesesoprattutto a riguardo delle numerose e crescenti colonie (oltre mezzo milione di coloni ad oggi) nei territori della Cisgiordania che, secondo gli accordi di Oslo, dovrebbero essere territorio palestinese all’interno del framework della soluzione a due Stati. Colonie divenute tali e tante da far addirittura ipotizzare che la soluzione a due Stati non sia più attuabile.

Seppure questo sia indubbiamente un problema enorme, ne esistono almeno altri due altrettanto cruciali e controversi ma recentemente meno presenti agli onori delle cronache: la questione del “diritto al ritorno” e la questione di Gerusalemme.

Il diritto al ritorno altro non è che il diritto, dichiarato finora irrinunciabile da ogni leadership palestinese, di ogni rifugiato palestinese all’estero di fare ritorno in Israele o nel futuro Stato palestinese una volta trovata una risoluzione definitiva al conflitto. Quando parliamo di rifugiati all’estero parliamo soprattutto dei discendenti di coloro che sono fuggiti durante i molti conflitti che hanno contrapposto israeliani e arabi sin dal 1948. Persone che ad oggi vivono in Paesi come il Libano o la Siria pre-conflitto, a cui generazione dopo generazione (alcuni arrivati alla terza se non alla quarta) è sempre stata negata la cittadinanza nel Paese di nascita in attesa che potessero fare ritorno in Palestina, un Paese di cui la maggior parte dei rifugiati di oggi ha soltanto sentito parlare dai racconti di nonni e genitori.

Le stime parlano di almeno sette milioni di persone. Un numero impressionante se rapportato alle demografie di Israele e Palestina. Lo sconvolgimento demografico che comporterebbe accettare il ritorno di milioni di nuovi cittadini arabi nel proprio territorio è la ragione principale che ha portato Israele a rifiutare il principio del diritto al ritorno da almeno due decenni. Fu soprattutto su questo punto, infatti, che naufragarono le ultime trattative tra Ehud Barak e Arafat nel 2000. Ed è proprio su questo punto che la (non troppo) discreta diplomazia americano-saudita ha cominciato a dispiegarsi e rivelare i primi tratti del piano Kushner-Bin Salman.

Nelle ultime settimane fonti libanesi hanno fatto trapelare contatti informali avvenuti tra emissari sauditi e organizzazioni palestinesi attive nei campi dei rifugiati in Libano, Paese che oggi accoglie anche un gran numero di palestinesi siriani fuggiti durante il conflitto. I sauditi avrebbero promesso, in cambio della rinuncia formale al diritto al ritorno, pressioni sostanziali sul governo libanese per far ottenere loro la cittadinanza e una pioggia di investimenti sauditi sugli abitanti dei campi libanesi. Dal poco che si sa, la risposta ad oggi sarebbe un secco “no”. Ma siamo solo all’inizio.

La seconda questione, quella dello status di Gerusalemme (secondo gli accordi di Oslodestinata a diventare capitale comune di entrambi gli Stati), viene affrontata in questi giorni con la consueta delicatezza diplomatica. Donald Trump ha infatti confermato il 5 dicembre la sua intenzione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, sancendo di fatto la pretesa israeliana sulla città e non, a quanto pare, quella palestinese. Secondo indiscrezioni fatte trapelare dalla giornalista del New York Times Anne Bernard, infatti, i sauditi avrebbero informalmente proposto ai palestinesi, come surrogato, di spostare la loro capitale nel villaggio di Abu Dis, poco fuori Gerusalemme Est e significativamente al di fuori del perimetro del muro fatto costruire da Ariel Sharon negli anni Duemila. Secondo le stesse indiscrezioni, poche settimane fa il leader dell’Autorità Palestinese Abu Mazen sarebbe stato convocato a Riyadh dove gli sarebbe anche stato esposto un piano che prevederebbe la costituzione di uno Stato a sovranità limitata su Gaza e una Cisgiordania rimpicciolita dove resterebbero quasi tutte le colonie esistenti. In cambio, ancora una volta, pioggia di denari sauditi (soprattutto per la leadership in carica) e, addrittura, alcuni territori ricavati dal Sinaiegiziano.

In realtà, tra le due questioni cruciali affrontate finora, sebbene quella di Gerusalemme abbia indubbiamente una forte carica simbolica, è probabilmente quella del diritto al ritorno che puó avere i risultati concreti più significativi, cambiando radicalmente la vita e le prospettive di milioni di persone e la stabilità degli Stati che li ospitano. Come hanno fatto notare anche attivisti palestinesi intervistati in questi giorni, la questione di Gerusalemme dentro la Palestina procurerebbe certamente proteste forti e destabiliazzazione a livello di leadership, mettendo probabilmente in dubbio il processo di pacificazione tra Hamas e Fatah, ma difficilmente porterebbe a un’altra intifada. Poco cambierebbe infatti per la vita del palestinese medio, andando a sancire ufficialmente una situazione che purtroppo è già di fatto tale da anni.

La decisione di Trump avrebbe però conseguenze forse più gravi fuori dalla Palestina. Verosimilmente, le popolazioni arabe e musulmane di molte parti del mondo reagiranno duramente, incrinando ancora di più, e forse irrimediabilmente, l’immagine degli Stati Uniti come attore credibile e neutrale in questi luoghi. E per Paesi come la Giordania questa potrebbe rivelarsi una crisi pesante, con una perdita pericolosa di credibilità per la monarchia, i cui sudditi sono per quasi il 70% di origine palestinese. Oggi Amman si trova intrappolata in una morsa di interessi e sensibilità contrastanti: alleata degli Usa, diplomaticamente vicina a Israele, strutturalmente dipendente dagli aiuti economici sauditi e statunitensi e tecnicamente custode dei luoghi santi islamici di Gerusalemme. Una crisi che danneggerà sensibilmente la credibilità della monarchia e forse perfino la stabilità del Paese.

Il vero vincitore di tutta questa vicenda? Ovviamente l’unico vero, inossidabile e temprato animale politico coinvolto: Benjamin Netanyahu. Lontano dall’essere un millennial ma scaltro e pragmatico abbastanza da aver intuito il beneficio potenziale per i suoi interessi dell’accoppiata Kushner-Bin Salman, il premier israeliano è l’unico infatti a trovarsi in una situazione win-win. Nel piano che si sta delineando, in cui Israele vede sancite definitivamente tutte le proprie pretese sui nodi più delicati del processo di pace, si intravede infatti la sua influenza ispiratrice. Possiamo immaginare che in realtà dentro di sé sia piuttosto scettico: a ben guardare, altre recenti imprese saudite con avvallo americano come il conflitto in Yemen non fanno esattamente ben sperare in un successo. Ma a lui poco importa. Indiscrezioni dicono infatti che “Bibi”, soprannome con cui è noto tra il pubblico israeliano, sia pronto ad allargare la sua coalizione di governo al centro, scaricando i partiti religiosi integralisti che lo sostengono attualmente, ideologicamente contrari a qualunque compromesso coi palestinesi a qualunque condizione.

Se il piano Kushner-Bin Salman dovesse andare avanti davvero, Bibi cambierà manto politico per l’ennesima volta, alleandosi coi partiti di centro, e riciclandosi nel ruolo del moderato pronto a firmare una pace “dorata” per Israele. Se al contrario, come lui stesso probabilmente pensa, il piano dovesse naufragare, lui potrà tenersi agevolmente stretti i suoi alleati dell’ala estrema e scaricare comodamente la colpa su americani, sauditi o, tanto per cambiare, palestinesi.

Se Netanyahu è il vincitore in ogni caso, a perderci in ogni caso saranno ancora una volta i palestinesi, a cominciare dalla loro traballante leadership politica. È difficile intravedere un modo in cui Abu Mazen possa sopravvivere politicamente a questa crisi e portare a termine con successo il processo di riunificazione con Gaza e Hamas. Con i sauditi saldamente dalla parte degli americani (e degli israeliani), un Egitto acquiescente e una Siria alle prese con la difficile risoluzione del proprio conflitto civile, quello davanti ad Abu Mazen è un mondo arabo diviso, in cui crollano uno dopo l’altro i punti di riferimento tradizionali della leadership palestinese.

Ma forse almeno un merito la decisione di Trump ce l’ha: quello di smuovere una situazione stantia e di rendere palese qualcosa che tutti sanno ormai da anni. Nella situazione venutasi a creare negli ultimi due decenni grazie alle politiche della destra israeliana e alle scellerate divisioni della leadership palestinese, la soluzione a due Stati può arrivare solo con un compromesso fortemente a ribasso per una delle due parti. La parte più debole.