“Di qui non ce ne andiamo”. Da Al Khader al campo di Aida
Sulla strada che porta verso il campo di Aida si incontrano i cimiteri dei martiri della resistenza palestinese: i combattenti caduti per mano dell’esercito israeliano. “I martiri sono martiri: non ha importanza il loro partito o fazione di appartenenza”. Per le comunità sono luoghi importanti, che rinsaldano una identità continuamente minacciata e dare un senso alla lotta che generazione dopo generazione i palestinesi portano avanti.
Quando si è ospiti di una famiglia di martiri e prigionieri politici questo aspetto risalta fin da subito: i volti dei familiari in carcere o caduti campeggiano nelle case, così come nelle strade dei quartieri. Dalle parole delle madri e dei padri sembra quasi di conoscerli. La sofferenza c’è e non la nascondono, ma è vissuta in modo profondamente collettivo. “La resistenza non è una questione individuale, ma è sempre di popolo”, ci racconta una famiglia che ci apre le porte di casa, offrendoci tchai e caffè in mezzo al fumo di sigarette. “Per tutti noi rimanere e farlo combattendo è una scelta. La nostra è una famiglia che ha sempre resistito: da me, fino a mio padre e i miei figli e figlie”, dice un vecchio combattente nel campo di Deisha.
Parole simili sentiamo anche in altri contesti, dal villaggio di Al Khader fino al campo di Aida a ridosso del muro. E’ qui che si dilunga il confine mobile in espansione delle colonie israeliane. Sulla collina di Khader vivono alcuni numerosi nuclei familiari, che quando arriviamo stanno ricostruendo una casa abbattuta di recente da Israele. Qui è la norma vedere la propria abitazione distrutta più volte, subendo parallelamente le intimidazioni dell’esercito, che spesso oltrepassa il muro e irrompe in piena notte. Bambini e bambine di pochi anni, assieme ai loro genitori e ai più anziani vivono tutti la stessa situazione. “Ci hanno offerto molti soldi per andarcene, ma noi abbiamo rifiutato: dove dovremmo andare?”. Si capisce che la situazione attuale non nasce dal nulla ed è il risultato di un processo più lungo sentendo anneddoti e racconti relativi agli altri periodi di rivolta e repressione fin dai tempi della prima intifada e anche più indietro.
Le colonie sono in continua espansione e circondano il villaggio. Il furto della terra resta al centro del conflitto e degli obiettivi israeliani, elemento costante dalla Grande rivolta del 1936. Ma la terra senza l’acqua non avrebbe lo stesso valore. Per questo, vicino Aida, una delle battaglie che porta avanti il movimento palestinese si svolge alle dighe di Salomone: tre grandi vasche costruite in tempi antichi per abbeverare gli animali e come cisterne per i campi, minacciate proprio dal continuo avvicinarsi di una colonia israeliana e dalla presenza minacciosa dell’esercito. “Rispetto a qualche anno fa, il livello dell’acqua si è molto abbassato perché gli israeliani hanno preso il controllo delle falde acquifere per rifornire Hebron e togliere rifornimenti idrici ai palestinesi”.
La battaglia che combattono non è però solo contro Israele, ma anche contro la stessa Autorità nazionale palestinese, che ha scelto di privatizzare la gestione e la distribuzione dell’acqua, causando di fatto una seconda espropriazione per la popolazione dei villaggi e dei campi.
La strada ci porta al campo di Aida, un altro accampamento nato nel ’48 divenuto col passare degli anni una vera e propria città di 6000 abitanti stipati in 1 km quadrato di superficie. Ma Aida è anche il campo che subisce l’invasione del muro dell’apartheid in piena città. Non ci sono medici, si trova una sola scuola per tutti i bambini del campo e la mobilità è ulteriormente impedita per l’impossibilità di superare checkpoint e torrette di controllo. Un muro immenso che solo le periodiche dimostrazioni di protesta e i molti murales di solidarietà permettono di non pensare eterno e imbattibile.
“Prima o poi lo butteremo giù, di questo siamo sicuri”. Nel frattempo, noi proviamo a scalarlo.
Aida, 30/12/2017